C’è, nelle fotografie delle forme della montagna di Franco Solina, una verità di carattere morale, come di radici e fibre messe a nudo, che è impressa con uno sguardo secco, energico, che davvero ci dà – tra campi totali e frammenti – la struttura vera, profonda, delle nostre cime. C’è una parte di noi che cova sempre la sua piccola ribellione, sognando una vita più libera e pura, mentre ci lamentiamo d’una vita dispersa e frantumata – pare dirci Franco Solina facendoci intendere la densità “dell’eterno” scritta nelle sue montagne –, solo perché non la sappiamo sintonizzare con un ritmo, una concertazione polifonica con la natura. Tutte le sue immagini sono infatti lungamente sedimentate: ha già deciso anni prima, magari, che in un certo luogo dovrà tornare a quell’ora e a quel giorno, a quell’alba o a quel tramonto, per ritrovare finalmente nell’obiettivo quello che ha già nella mente. Tutto ci dice come queste immagini siano temprate in una fatica e pazienza antiche. Le indagini sui tronchi e i licheni, sui sassi e le rocce, sui frattali di ghiaccio e sulle trine di neve, sulle acque dei laghetti e dei torrenti o delle polle delle torbiere, sembrano avere persino raccolto l’esperienza della materia e del colore dell’informale, degli impasti e delle meraviglie formicolanti, vive e scintillanti; come le contemplazioni delle grandi distese degli altipiani, dei laghi, dei ghiacciai rievocano le rigorose pezze cromatiche dell’astrattismo geometrico. Un ritorno alla natura solenne col senso limpido d’una realtà non ancora corrosa, di dura commozione di vita nel paesaggio, che trasmette allo sguardo un carattere di probità e asciuttezza. (dalla presentazione di Fausto Lorenzi)
